Giulia Del Papa dialoga con PAOLO GARAU, in occasione del VI appuntamento con Sculture in campo a Roma

Giulia Del Papa Oggi, come negli scorsi appuntamenti con Sculture in campo a Roma, oltre a parlare dell’opera di Palo Garau presente nel Parco Internazionale di Scultura a Bassano in Teverina, viene richiesto all’artista di presentare un suo lavoro qui a studio, per stringere un maggior legame con il presente della sua ricerca artistica. Paolo ha deciso di portare un’opera che in questo momento è molto sentita all’interno della sua ricerca artista e plastica. Abbi pietà di me, questo è il titolo. E’ stata realizzata a cavallo fra il 2022 e il 2023 ed ha la particolarità di essere un lavoro performativo, ha un suo “farsi” e un suo compimento nel tempo (l’artista “accende” lo stoppino posto all’apice dell’opera, come si fa con una candela, n.d.r.).

Paolo Garau quando sono stato invitato a partecipare a questo incontro ho subito pensato ad altre due sculture, legate direttamente all’opera esposta presso Sculture in campo. Ma nei giorni a seguire pensai che se dovevo parlare di qualcosa che mi interessa davvero dovevo individuare qualcosa che mi interessa adesso, in questo momento. In particolare, a un lavoro che ha un anno ma che rimane un’opera che mi coinvolge sempre. Abbi pietà di me nasce a partire da alcune riflessioni. Negli ultimi due anni ho lavorato con l’ausilio della cera, materiale legato al concetto di cambiamento e sparizione dell‘opera. Che è poi la prosecuzione di un ciclo di lavori come quello di Sculture in campo. Mi interessava l’apertura della forma, intesa come passaggio dall’interiorità all’esteriorità dell’individuo. L’azione performativa della cera, dopo un numero considerevole di prove intermedie durante le quali ho osservato il suo farsi, lascia degli spazi di imprevedibilità interessanti. Ogni volta che “accendo” una figura, è sempre un’occasione per trovare nuove opportunità, nuovi suggerimenti. C’è un aspetto certamente spirituale in questo lavoro che mi ha catturato. Come accennavo, sono un paio di anni che rifletto sulla questione dei cambiamenti climatici, una grande frustrazione per me. Perché l’oggettivazione della problematica è talmente grande che sembra ingovernabile. Cosa fare? Mi sono domandato. L’unica soluzione, almeno per me in quanto artista (e padre), è farsi veicolo di comunicazione e lavorarci sopra. Con un mio amico filosofo napoletano ho approfondito l’argomento e questo scambio ha generato il lavoro. L’idea iniziale era di farne una performance da svolgersi sul Monte Somma a Napoli. Volevamo mettere in scena una sorta di processione che sarebbe culminata con l’accensione dell’opera di fronte al Vesuvio, dove vivono centinaia di persone in costante pericolo per la possibile eruzione del vulcano. Benché ci sia un centro studi che monitora l’attività eruttiva, l’evacuazione comunque avrebbe delle difficoltà, visto il numero ingente di persone interessate. Tuttavia, l’impossibilità di affrontare il problema in maniera risolutiva ci ha fatto riflettere sulla presunzione dell‘uomo nel credere di poter sempre supervisionare tutto, di governare su tutto. Ha fatto seguito un esame di coscienza individuale.

Tornando al lavoro di oggi, abbiamo pensato alla rappresentazione simbolica dell’umanità. I due elementi sono ovviamente dei calchi di sculture modellate e questa di oggi è stata una delle meglio riuscite, dopo diversi tentativi. La cosa interessante è che il caldo di questa estate ha de-formato questo lavoro e ha creato una configurazione completamente nuova. Le teste si stavano completamente staccando e questo l’ho trovato fantastico. E condividere questo lavoro con voi in occasione di questa intervista è per me un bel regalo, un’ottima occasione per fare “vivere” quest’opera.

G. D. P. Nel tempo in cui ci siamo conosciuti, ho osservato che la spiritualità è una tematica potente nella tua ricerca artistica ed è anche, in qualche modo, quella che caratterizza la tua opera a Sculture in campo. In questo caso parliamo di un altro tipo di ricerca perché si tratta di una figura umana sezionata. Tu lavori molto sulla metamorfosi e sulla sintesi della figura umana, attraverso tagli e sezioni. Nel caso di Sculture in campo, questa sezione è ricoperta da una superficie dorata che è un elemento molto legato alla spiritualità. Io ti chiederei adesso di parlarci anche di quella scultura che, come dicevi, fa parte di un lungo percorso nella tua ricerca plastica. Si tratta di un’opera installata nel 2020 ma che ha radici più antiche. Ti inviterei quindi a parlarci anche del tuo rapporto con Sculture in campo e del perché hai deciso di posizionare in quel punto esatto la tua opera.

P.G. Quel lavoro lì ha una storia particolare, era inizialmente una commissione per un artista, ma la sua destinazione successivamente è cambiata. Per questo ho avuto modo in seguito di reintervenirci, perché stavo riflettendo sulla figura umana in quella direzione. È stato esposto precedentemente presso la Fondazione Mastroianni di Arpino (per me è stato molto importante e proficuo il lavoro fatto con Loredana Testa). Dopo di ché ha partecipato alla Biennale di Ars Ventuno e ha vinto un premio. In contemporanea mi è capitato di conoscere il Parco e ho proposto l’opera al Comitato scientifico che l’ha poi accolta. Vista la sua dimensione monumentale, poter collocare questa scultura all’aperto era un mio grande desiderio. Avevo già installato delle opere all’aperto prima. Mettersi in relazione con l’ambiente circostante è un’esperienza forte, specialmente adesso che vivo e lavoro a Roma dove gli spazi per lavorare sono ridotti. Metto in parallelo a quest’opera quella presentata nella Riserva Naturale del Furlo perché era il primo lavoro della serie Fragment. Sono rimasto affascinato dalla possibilità di ricreare un posto che fosse intimo. E lì infatti ho installato una testina sulla quale ho praticato questo taglio, inserita in una nicchia che ho scavato in una parete. Mi ricordava una sorta di sacrario, un luogo dove andare e riflettere sulla propria esistenza. E’ stato divertente il primo incontro con Lucilla Catania la quale mi ha suggerito un luogo che a primo impatto mi è sembrato perfetto! L’opera è inserita fra due filari di ulivi con una prospettiva a perdita d’occhio sulla vallata. Diversamente da quella del Furlo, l’opera non ha quell’aspetto intimista ma mantiene un ambiente protetto.

Tornando al discorso della sintesi, quello che a me interessa nel mio lavoro è la ricerca di un assoluto. Se intervengo con il segno, con il modellato diventa qualcosa di estremamente personale, ristretto, strettamente mio e questo mi disturba, mi sembra troppo riduttivo. Con quella serie di lavori ho invece avvertito l’esigenza di allontanarmi dal segno, cercando appunto un assoluto. Attraverso l’apertura questa energia, questa spiritualità entra, passa attraverso. E quel lavoro lì ha proprio questo slancio verso l’alto, che lo deforma leggermente. Come se l’energia passasse intorno e rimodellasse la figura.

G. D. P. Infatti, ieri, confrontandoci, abbiamo parlato anche di questa verticalità che tu dài alle tue sculture. Le figure intere sono figure rette, proiettate verso l’alto. Hanno sempre uno slancio verso l’alto che a mio avviso si riferisce anche alla tua ricerca di spiritualità. Una cosa che mi incuriosisce del tuo lavoro è la scelta della figura umana, perché oggi nel contemporaneo in generale la scultura si è distaccata dalla figurazione, invece tu da giovane artista scegli di ragionare ancora sulla figurazione. Secondo me è una scelta piuttosto coraggiosa. Ci vuoi raccontare della motivazione che ti spinge verso questa indagine, in particolare verso una figura umana maschile e femminile?

P.G. A proposito di figurazione, seguo il lavoro di Antony Gormley. Nel mio caso la figura umana è un pretesto per utilizzare un metro di misura con quello che mi sta intorno. Penso che l’essere umano sia l’elemento cardine in questo pianeta, in particolare in questo momento storico. Penso che lavorare sulla figura umana mi dia la possibilità di ricercare, di mettermi in discussione. Ogni volta che penso a un’opera penso che abbia senso lavorare sulla figura perché c’è una restituzione, perché si crea un dialogo. Credo che la scultura possa diventare un mezzo per suggerire delle riflessioni, per generare il dialogo appunto con coloro i quali la fruiscono.

Lucilla Catania Quando parli di spiritualità a cosa ti riferisci in particolare? Intendi una spiritualità religiosa, un anelito dell’uomo verso una dimensione trascendentale, quindi al rapporto con dio o una spiritualità sensu latu, più immanente, di uomo che prescinde dall’esistenza di dio?

P.G. Questa per me è una domanda che rimane in sospeso. Le riflessioni che sono scaturite durante la realizzazione di questa serie di lavori (lo vedremo la prossima estate in Calabria, a Gerace) sono riferite alla cristianità. Il perdono, la presa di coscienza della nostra dimensione di non finitezza, il nostro essere fallaci, sono aspetti intimamente cristiani. Sono questioni che avverto come trasversali, non necessariamente religiosi; tuttavia, penso che la nostra coscienza è cristiana perché siamo nati in un contesto fortemente segnato da questo orientamento. In particolare, a partire da questo punto di vista credo che la conservazione e la tutela del nostro pianeta e dei suoi abitanti sia un principio rispetto al quale non si possa prescindere!

Pino L’aspetto religioso e cristiano l’ho colto nel lavoro che hai portato oggi. E mi viene in mente: Quando accendiamo un cero alla Madonna o a un santo in chiesa cosa significa? Si tratta di un rituale? Cosa è che ci interessa veramente? Chiediamo un aiuto per risolvere le nostre debolezze, la nostra fragilità?

P.G. È come un’attivazione, un mettere luce su un pensiero. Io la vedo come un’azione che vuole avere un significato netto. Pensiamo ad una grazia: il pensiero si sostanzia nell’azione! Certamente ha a che fare anche con la riflessione rispetto ai nostri limiti individuali.

Alberto Timossi: Io ho colto invece una delle tue prime riflessioni riguardo il cambiamento. A proposito di scultura, tu cominci in un modo e finisci in un altro. C’è questo cambiamento in atto (pensiamo all’azione del fuoco, che poi fa parte dell’opera…) ma è un elemento che tu decidi di aggiungere perché vuoi azionare questo cambiamento sulla forma e idealmente sulle persone forse… Anche in questo ho avvertito la spiritualità. C’è una specie di spoliazione di una forma che diventa altro.

P.G. Hai colto un aspetto centrale! In questo momento mi interessa molto la questione della decadenza intesa come momento di cambiamento e non distruzione improvvisa. Lavorando con la cera – molti altri artisti hanno già lavorato con questo materiale, realizzando opere bellissime – c’è sempre una sparizione. A proposito di questa apertura che si crea a partire dalla testa: se questo processo fosse partito da un braccio avremmo potuto parlare di mutilazione. Invece così si spera in una rinascita.

Alberto Timossi: Come le montagne che franano dalla vetta…

Marcello Fraietta: Tu Paolo parlavi di perdono: a chi si rivolge questa pietà?

P.G. Si rivolge all’umanità. Credo che ci troviamo difronte ad una mancanza di coscienza. Forse è per questo che ci si rivolge al Creatore. Credo che non abbiamo sufficiente coscienza rispetto alla responsabilità delle nostre azioni distruttive sull’ambiente, ad esempio. Da padre questo è un argomento che mi tocca fortemente. Cosa lascio ai miei figli? Credo e prevedo che ci saranno grandi questioni da risolvere e in questo non dobbiamo vederci come singoli ma come collettività. In questo senso l’umanità non sparirà, non può sparire, anche nella prospettiva di disastri peggiori rispetto a quelli che abbiamo vissuto. Ci sarà anche solo un residuo di cellule che continuerà a vivere e a generare vita. La mia idea è sempre un’idea evolutiva di miglioramento.

Alessandra Di Francesco: Credo che la bellezza del lavoro di Paolo sia la domanda aperta. Al di là degli ismi, delle religioni. È come se lui in ginocchio suggerisse una domanda, a prescindere dal suo interlocutore: dio, l’uomo, ecc… La bellezza a mio avviso risiede nella purezza del chiedere. Il suo lavoro è aperto ad una domanda, all’aspetto umano in particolare. La domanda forse è: dove è la salvezza? Laica o religiosa che sia. E questo Abbi pietà di noi è per tutti, credenti o meno?

Tonca Gangeva: Il fatto di rappresentare la natura umana e questa naturalezza nel farlo, è anche lo stimolo ad aver fiducia nell’uomo. In qualsiasi difficoltà dobbiamo trovare la forza, umana, di resistere, la forza psichica, la forza delle buone intenzioni, la forza del rapporto con gli altri. La ricerca, insomma della forza interiore. Solo quella ci può aiutare a migliorarci. Che poi la spiritualità sia religiosità, cristianità, è comunque la forza umana che ci manda avanti, che ci può aiutare. Penso che sia questo il senso del lavoro e delle discussioni che ha generato.

Laura Iamurri: Volevo tornare all’opera. Mi colpisce molto la durata, il tempo del consumarsi dell’opera. Vorrei chiederti se questo tempo specifico era previsto (immagino avrai fatto delle prove), se avessi già un’idea di quanto sarebbe durata la parte più spettacolare dell’opera, lo scioglimento della cera e cosa ne è dell’opera adesso, il risultato di questa consunzione. Il destino di queste teste è quello di essere esposte come traccia di un processo che è avvenuto oppure altro?

P.G. Questo lavoro è un unicum. Il processo di combustione e il suo risultato sono parte di un unico processo. L’obiettivo è certamente la fine del lavoro, la trasformazione definitiva, il traguardo dell’essenza, benché la parte performativa sia sempre un’esperienza unica ed emozionante per chi la fruisce. Nel caso di Antropica a Sculture in campo, utilizzai la candela e ho lavorato solo sulla resina e sulla cera, senza stoppini. La parte in cera si è sciolta in quasi due anni e ha lasciato la superficie pulita. Tutto questo lavoro precedentemente era stato scattato per la Biennale del Tempo, a Sermoneta cinque anni fa. In quel caso si trattava di due figure, due innamorati, sciolte con l’ausilio di una candela. Un lavoro particolarmente poetico, insomma.

Marina Sciarelli Mi colpisce molto l’idea del rituale del sacrificio dell’uomo e della donna nel tuo lavoro. Quella sofferenza che tu infliggi alle tue figure.

P.G. Io mi interrogo sui limiti del genere umano: sbagli ti fai male ma poi impari. Questa è la linea che perseguo. Perdi una forma ma poi ne trovi un’altra, vieni rimodellato. È un po’ come quando lavori con l’argilla: ti cade un pezzo e quell’errore diventa un pretesto per creare una nuova forma. È un po’ quello che succede con l’esistenza in questo mondo e il suo inganno. Oggi la società ci vuole prestanti, conformi a un modello funzionale. Devi funzionare, più che esistere. Non ci viene concesso lo spazio di errore che diventa invece spesso creativo. Per quanto riguarda la sofferenza, io penso sia indispensabile al passaggio, per raggiungere un livello più alto. Pensiamo all’umanità, la sua evoluzione (ce lo racconta la storia) ha attraversato stragi e guerre, ha vissuto sulla sua pelle la sofferenza come passaggio obbligato. Penso la dominante visione individualistica di questi tempi sia folle. L’uomo è parte di una complessità, di una moltitudine. La stessa esperienza vissuta qui, in questo studio, è il risultato di uno scambio di idee, di contributi condivisa da tutti, non solo da me.

Tornando alla sofferenza della forma dell’opera che si scioglie, personalmente non voglio alludere al dramma, al sacrificio della carne cristiano. Non ho pensato a questo quando l’ho realizzata.

G. D. P. io vorrei tornare sul tema della decadenza al quale, Paolo, stai lavorando in questo momento. Sei reduce da una mostra presso l’Ambasciata americana dove il concetto della decadenza è stato ampiamente trattato. In questo contesto, sia fa riferimento alle civiltà del passato che ciclicamente alternano momenti di sviluppo e momenti di decadenza. La mostra era legata tematicamente al territorio in cui lavori, la città di Roma. Ma questo tema è stato affrontato anche in opere precedenti. Hai anche lavorato molto sul binomio donna/uomo, figura femminile/figura maschile. Ce ne vuoi parlare?

P.G. L’esperienza della mostra all’Ambasciata è stato un bellissimo lavoro collettivo. È stata un’occasione per studiare il classico, le civiltà che passano, la ciclicità del tempo, insieme alla ricerca dell’assoluto. Questa mostra mi ha permesso di pensare anche alla mostra che ci sarà negli spazi di TraLeVolte a febbraio 2025, dove lavorerò su dimensioni più grandi. Insisterà in questa occasione l’elemento scenografico.

Francesco Pezzini (TraLeVolte) aspettiamo con molto piacere questo progetto previsto per il prossimo anno! Siamo curiosi anche noi di scoprire come evolve il lavoro di Paolo.

Barbara Lalle io osservo nel tuo lavoro il confronto fra la dimensione maschile e femminile (come fu in occasione dell’opera di Sermoneta al Festival del Tempo), ma in questo caso mi sembra che le due fiamme tendano a ricreare una forma androgina. Mi riportano alla teoria delle fiamme gemelle. Entrambe le figure sacrificano una parte di sé. La testa diventa luce e calore. Ti domando cos’è che stanno sacrificando di loro stessi, di questa unità?

P.G. Dissento nel voler individuare, almeno nelle mie intenzioni realizzative, la questione relativa all’androgino. Cerco sì di lavorare su degli “assoluti” ma non in riferimento al corpo, piuttosto alla loro umanità. Per quanto riguarda il sacrificio, invece, le due figure rinunciano metaforicamente al superfluo, ai loro orpelli.

Daniela Perego mi permetto di azzardare un’allusione relativamente alla combustione che parte dalla testa e si disfa, come si diceva, del superfluo: è forse l’anima che si disperde, abbandonando il corpo…

P.G. E’ giusto anche questo.

G. D. P. Mi preme aggiungere qualche parola sui disegni di oggi. Osservo che torna, come nel ciclo dei disegni presentati all’Ambasciata americana, l’allusione al movimento dello scorrere del fiume, che qui forse rammenta più il movimento tratteggiato dalla fiamma. Quello che più mi colpisce è il fatto che le figure siano sospese. Forse volano?

P.G. Sono figure che ascendono, che tendono verso l’alto…